Nel
dialetto locale, il monte, il cui lato sinistro franò sul bacino
nel 1963, causando un’ondata che travolse e rase a suolo il
sottostante centro abitato di Longarone, provocando oltre 2.000 morti,
era chiamato Monte Toc, che significa appunto marcio, pericolante, mentre il torrente del Vajont, in ladino significa letteralmente va giù.
Non c’è niente in fondo che i montanari non sappiano sulle
loro vallate. Bastava chiedere, informarsi e saper ascoltare. I
segnali, in fondo, c’erano tutti e ben visibili.
Ma non c’era nessuno che volesse guardare, sentire o ascoltare.
E
i fatti, si sa, hanno la stravagante abitudine di rimanere tali, anche
dopo una tragedia terribile come questa, i fatti, restano fatti.
Vediamo dunque allora quali furono i fatti, e quali le conseguenze.
Partendo,
come in tutte le catastrofi, a disastro avvenuto, cercheremo di
ricostruire, percorrendo la strada a ritroso, quali furono i campanelli
d’allarme, gli indizi, le avvisaglie, le precognizioni di un
pericolo reale.
Talmente
reale, che ancora oggi la storia è qui a ricordarlo, in memoria
delle vittime che a causa di esso perirono, od ebbero la vita spezzata,
perché, ricordiamolo, in certe tragedie forse il ruolo
più duro è di chi sopravvive, per interrogarsi, cercando
un perché che a volte non esiste.
Alle
22.39 del 9 Ottobre 1963, un lato intero del monte Toc, sul versante
sinistro del bacino, all’interno della diga di contenimento,
sprofonda nelle acque sottostanti, in un unico fronte compatto 260
milioni di metri cubi di roccia, con un boato sinistro, precipitano
nelle acque calme del lago artificiale.
A
causa della frana gli elettrodi della rete elettrica austriaca vengono
divelti dai tralicci, l’intera zona, prima di precipitare nel
buio, è illuminata da sprazzi di luce grigio e azzurri causati
dal corto circuito. L’unico testimone, impotente, della tragedia,
è il parroco di Casso, un paesino situato diversi chilometri
più in alto del fronte della frana, e sul versante opposto.
Stava
lavorando in canonica, quando ode un fragoroso boato, e la notte viene
illuminata da lampi bluastri che sembrano preannunciare un temporale,
ma non è una burrasca quella che sta per colpire la vallata,
bensì una tragedia immane, di proporzioni epiche.
Da
una piccola finestra della Canonica, che affaccia verso valle, il
Parroco vede tutta la costa del monte Toc precipitare in basso, aprendo
nella montagna una ferita a forma di M, lunga più di tre
chilometri, all’interno della quale la terra si è aperta
verso il basso con una profondità di oltre 100 metri, portando
con sé boschi, case, prati coltivati, uomini e animali.
Giù
a valle, l’unico segno imminente della tragedia è la
caduta di tutte le linee elettriche, ma nessuno ancora immagina la
portata del dramma che sta per abbattersi su Erto, miracolosamente
indenne, e su Longarone, che invece sarà rasa al suolo
completamente.
Salta
la luce elettrica, si odono boati verso le montagne, il cielo è
squarciato da lampi, tutti credono a un temporale, magari di
particolare violenza, ma niente di preoccupante, in fondo si tratta di
gente di montagna, abituata alle intemperie e ai rovesci atmosferici.
Il
parroco, impotente, è l’unico che ha una visione chiara di
quello che sta per accadere, quando osserva gli oltre 260 milioni di
metri cubi di roccia del monte Toc precipitare verso le acque del lago,
ma non può avvertire nessuno, e anche potendo, chi mai gli
avrebbe creduto? Lo scenario a cui assiste è da diluvio
universale, apocalittico, incredibile, quasi impossibile a descriversi.
Don
Onorini, da quota 930 mt, al sicuro sull’altro versante della
montagna, vede la sponda opposta del lago scomparire in una nuvola
bianca, mentre una colonna d’acqua alta più di 250 metri
si alza in verticale fino alla quota di Casso, 930 metri di altezza,
massi del peso di diverse tonnellate vengono scagliati verso il cielo
come sassolini di ghiaia, a 800 metri di quota, un centinaio di metri
sotto il paesino, la costa sporge verso il lago come uno sperone, con
una roccia prominente, aguzza e tagliente. È questo sperone di
roccia a risparmiare il paese, la massa d’acqua vi si infrange
contro dividendosi in due ondate, mentre la terra è scossa da un
tremito terribile, l’acqua colpisce solo i primi edifici
dell’abitato, ma ha perduto parte della terribile forza
d’inerzia, si infrangono i vetri, crollano alcune pareti, ma le
costruzioni reggono, le persone fortunatamente sono in salvo, nelle
camere da letto ai piani superiori, in casco contrario non avrebbero
avuto alcun modo di scampare alla furia delle acque.
L’onda
rimbalza così sul versante opposto al fronte della frana, si
spezza e perde parzialmente di energia nell’impatto contro Casso,
si rivolta verso la diga, ora, e corre verso ovest, scivolando
giù, strappa via la passatoia superiore, il camminatoio, la
strada asfaltata, travolge gli alloggi dei tecnici, degli operai, dei
sorveglianti, che saranno le prime vittime, poi scavalca la diga, e
precipita a piombo in caduta libera per 261 metri di baratro
perfettamente verticale.
Intanto
a Casso volano macigni, un masso sfonda il tetto della chiesa, altre
abitazioni vengono sventrate, ma sono fortunati, nessun ferito, non
sarà così a valle.
Subito
al di là del muro di cemento, oltre la diga, la gola è
profonda, stretta e tortuosa, la massa d’acqua che precipita da
quell’altezza viene compressa contro i fianchi della montagna,
acquista potenza, corre verso valle schiumosa e roboante alla
velocità di oltre 100 chilometri orari, acquistando un fronte
compatto alto ben 70 metri.
Appena
un minuto dopo il cedimento del Monte Toc, alle 22.40, giù a
Longarone comincia l’effetto metropolitana, un leggero vento
proveniente dalla gola del Vajont inizia a spirare, dopo un attimo si
cominciano a percepire le goccioline d’acqua, il vento rinforza,
spinto avanti dalla gigantesca ondata e già non c’è
più il tempo per far niente.
Il
brusio diventa un rombo, la terra inizia a tremare sotto i piedi degli
abitanti che si riversano in strada, qualcuno comincia a capire ed
è tutto un urlo “E’ casca’ la diga!”.
Quelli
che sono fuori cercano scampo, verso la statale, qualcuno
incongruamente scappa verso i monti, proprio in braccio
all’ondata che arriva, altri si fermano per portare in salvo
amici, parenti e famiglia, per avvisare gli altri.
Moriranno
tutti, saranno salvi solo coloro che si sono arrischiati verso i monti,
perché l’onda, passando, li solleverà ancora
più in alto, e riusciranno a aggrapparsi agli sterpi, agli
alberi, ai cespugli, perfino all’erba, pur di non ricadere in
basso quando le acque si ritirano schiumeggiando.
Prima
che l’onda sommerga Longarone dal greto del fiume migliaia di
ciottoli sono proiettati in avanti con la violenza di proiettili, il
vento strappa le tegole dai tetti delle case, l’aria stessa,
compressa dalla enorme massa dell’acqua che sopravanza, diventa
una temibile arma mortale, l’onda d’urto scaglia persone e
cose in ogni direzione, è come un tornado.
Non
c’è salvezza, chi viene risparmiato dalle pietre, dalla
prima ondata del tifone, e dai crolli degli edifici, viene poi travolto
dall’immane ondata che sopraggiunge.
Esaurita
la sua furia distruttiva, dopo aver travolto Longarone, radendola al
suolo, l’onda si allarga, si placa, risale il corso del Piave,
abbatte alcuni edifici dei paesi successivi, sono colpiti Pirago,
Rivalta, Faè, Villanova, il fiume si alza di livello per decine
e decine di metri, causando piene e straripamenti, ma fortunamente
riesce ad assorbire e a stemperare il flusso della massa acquea in
movimento, occorrerrano decine di ore prima che il flusso torni ai
livelli normali.
Intanto
indietro di Longarone non c’è più traccia, nessun
edificio, nessuna strada, nessun segno di un centro abitato se non per
le persone, le cose, le case, i mobili e le macchine che sono state
scaraventate sugli alberi, tutto il resto è una piana sconfinata
di fango e di desolazione.
Resteranno
i calcinacci, la polvere, l’acqua, il fango e le lacrime a
ricordare un paese intero, e le traversine della ferrovia con i binari
divelti per decine e decine di metri, piegati e contorti come un
monumento funebre d’arte postmoderna.
È
stato calcolato che l’onda d’urto che precedette la massa
d’acqua in movimento ebbe un impatto pari o superiore a quella
causata dalla bomba atomica di Hiroshima, coloro che si trovavano
all’aperto furono smembrati dall’impatto ancora prima di
essere colpiti dall’acqua, 50 milioni di metri cubi in movimento
alla velocità di 100 chilometri orari, un’ecatombe.
Il
primo comunicato Ansa che informò la nazione dell’accaduto
fu diramato poco dopo mezzanotte, per il resto del mondo la zona del
Vajont sembrava un microcosmo isolato e distante, la prima telefonata
ai vigili del fuoco di Belluno parlava di un grosso guaio alla diga «Non so bene che cosa sia successo: sono tutti fuori. Ma se è caduta la diga, i morti sono migliaia».
La
diga non era caduta, aveva retto, e regge ancora, ma qualcosa di
terribile era successo, e i morti si contavano davvero a migliaia.
Lo
spettacolo che si offrì alla vista dei primi soccorritori giunti
alle incerte luci dell’alba fu da tregenda, un’immensa
compatta piana di fango che andava solidificandosi, sulla quale si
aggiravano smarriti i pochi sopravvissuti. 1917 morti di cui 1450 su
fondo valle, che equivale a dire l’80% dei presenti.
Come
a Pompei dopo l’eruzione del vesuvio, dove tutto era cenere e
lapilli, di Longarone rimaneva solo una distesa sconfinata, un
paesaggio irreale appiattito, senza alcuna traccia di macerie, sembrava
che lì prima non ci fosse mai stato niente.
E
i morti si pescavano dal Piave, che continuava a sospingere quei poveri
resti verso il mare, non ci fu modo nemmeno di contare le perdite, non
fu possibile identificare quei poveri corpi che venivano faticosamente
tratti a secco sulle rive fangose del fiume.
Una
linea sconfinata di cadaveri da cima a fondo valle, allineati sulle
sponde senza soluzione di continuità, in una lunga e
ossessiva processione, come le stazioni di una via crucis. Per contarli
fu necessario risalire all’ultimo censimento del 1960, sottrarre
i sopravvissuti, e dolorosamente constatare il decesso di tutti gli
altri, che furono inumati in lunghe fosse profonde, dentro casse di
pino costruite di fresco, dove l’odore del legno appena tagliato
si confondeva con l’amaro sentore della morte.